

Maria Cristina Galli
23 ore fa


Paolo Timossi
5 giorni fa
Aggiornamento: 27 giu
Willian Turner Bufera di neve: Annibale e il suo esercito attraversano le Alpi, 1812 Tate Britain, Londra
Nella religione classica, che per chissà quale lascito della cultura post Christum ci si ostina ancora a definire “mitologia”, gli dèi e la natura è come se fossero due anime dello stesso corpo. Una simbiosi armonica, una sintonia totale. Gli dèi non erano solamente una spiegazione tangibile degli arcani fenomeni naturali, ma ne erano un’identificazione ideale. La religione era la natura e la natura era la religione. Proprietà commutativa: l’una era espressione dell’altra. L’intera società arcaica romana, la sua etica e il suo sistema di valori si fondavano sul rispetto di quei dettami impressi nella religione antica, nei suoi culti, nei suoi rituali ciclici.
La dèa Maia, ad esempio, protettrice della fertilità e della fecondità, era titolare di un culto che si celebrava nel primo giorno di maggio per incoraggiare la rinascita primaverile della natura. In verità, la civiltà arcaica romana salutava l’avvento della bella stagione con tantissimi rituali religiosi, tra i quali quello di Maia è forse il meno importante, ma senz’altro uno dei più curiosi, se non altro perché è dalla dèa che prende il nome il mese di maggio (Maia > maius > maggio). Insomma, la vita della Roma arcaica era interamente scandita dai ritmi naturali, su cui i padri costruirono un complesso sistema di mores che per lungo tempo sarà alla base della civiltà romana.
Durante l’età di Cesare, tragica per la situazione politica e straordinaria per il fermento intellettuale, la cultura romana raggiunse una tale maturazione, da fratturarsi in tante visioni differenti e spesso contrastanti fra loro. La solida impalcatura del Mos Maiorum venne messa in discussione, e i pensatori si divisero fra decostruttori e tuonanti nostalgici dei bei tempi andati. Una scena culturale che, col senno di poi, e non senza qualche azzardo, si potrebbe definire proto-postmoderna. Tra i decostruttori si impose la voce di Tito Lucrezio Caro, filosofo epicureo, sulla cui vita si sa ben poco.
Per non affidarsi alla fantasia di San Girolamo, che lo vuole morto suicida a quarant’anni, dopo essere impazzito a causa di un filtro d’amore (ecco come doveva apparire, agli occhi di un cristiano della prima ora, un filosofo epicureo), è opportuno tralasciare la questione biografica per analizzare un passo del suo capolavoro divulgativo: il De Rerum Natura, 7415 esametri che si propongono di spiegare, sotto una prospettiva scientifica, i fenomeni naturali, e che hanno come bersaglio principale proprio la religione.
O meglio quel sistema di credenze e di valori che impedivano all’uomo di ragionare in modo autonomo e razionale. In ogni caso, per rendersi conto della portata dei versi lucreziani, vale la pena citare un passo del cosidetto elogio di Epicuro (DRN I, vv 72-79): Per la prima volta un uomo greco osò sollevare gli occhi mortali e resistere contro la religione, lui che né la fama degli dei né i fulmini né il cielo dal minaccioso mormorio riuscirono a trattenere, ma stimolarono ancora di più il suo animo a desiderare con tutte le forze di spezzare le catene che serrano le porte sbarrate della Natura.
La conoscenza della natura (e quindi del mondo) è rinchiusa in uno scrigno che solo l’intelletto umano, vincendo le paure della religione, può tentare di aprire.: Il suo intelletto vinse, e si spinse lontano oltre le mura infuocate dell’Universo e percorse con la mente e con l’anima tutta l’immensità, da cui ci riferisce, da vincitore, cosa possa nascere, cosa possa morire… Tralasciando l’incanto poetico di questi versi meravigliosi, che in latino suonano ancora meglio (mortalis tollere contra / est oculos ausus primusque obsistere contra…), il passo proposto si configura come un appassionato inno alla razionalità: la mente umana, conscia delle proprie forze, può fare a meno della natura, dei suoi cicli e dei rituali ad essi connessi. Rivoluzione.
Quando tre secoli più tardi, nella seconda età imperiale, la religione arcaica venne del tutto abbandonata per fare posto alla nova religio cristiana, la civiltà romana si avviava già al suo lento declino. Non è certamente colpa di Lucrezio se le cose sono andate come sono andate, ma molti storici vedono nella questione religiosa un principio di crescente debolezza e fragilità. Quando l’etica di un popolo è salda nelle sue certezze e, perché no, anche nelle sue paure, in genere tutto è più semplice e gestibile.
Gli interrogativi etici che ci pone questa storia sono tanti e diversi fra loro, e non è difficile riscontrare nei versi di Lucrezio un certo tasso di attualità. L’idea è che spesso, quando l’uomo sfida i suoi stessi mezzi, quando si spinge lontano oltre le mura infuocate dell’Universo, è in grado di dare vita tanto a rivoluzioni meravigliose quanto a catastrofi irrimediabili. E non si vuole certo diagnosticare un’imminente caduta dell’impero d’Occidente, tutt’altro. Ma quantomeno segnalare che, senza una giusta considerazione della Natura, l’uomo è senza dubbio più audace, sì, ma certamente più solo.
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