Mortalis tollere contra
- Paolo Timossi
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Aggiornamento: 27 minuti fa
Tito Lucrezio Caro, filosofo epicureo, nel suo capolavoro divulgativo De Rerum Natura si propone di spiegare, sotto una prospettiva scientifica, i fenomeni naturali e il sistema di credenze e di valori che impedivano all’uomo di ragionare in modo autonomo e razionale

Willian Turner Bufera di neve: Annibale e il suo esercito attraversano le Alpi, 1812 Tate Britain, Londra
L’oggetto d’arte (…) deve annientarsi come oggetto familiare e diventare mostruosamente straniero. Ma questa estraneità non è più quella dell’oggetto alienato o rimosso, non brilla per la perdita o la privazione, brilla di una vera seduzione venuta da altrove, brilla dell’aver ecceduto la propria forma in oggetto puro, in avvenimento puro.
Jean Baudrillard, "La sparizione dell’arte".
L’opera d’arte, mai quanto ora, è l’oggetto di una fascinazione. Si è ormai superata l’idea di mimesis, di riproduzione del reale; l’arte si avvicina sempre più al concetto di dispositivo, di “macchina” assoluta che oltrepassa la rappresentazione, e che, nella sua vocazione ultima, offre una visione. L’opera assume cioè il ruolo di interprete di un altrove segreto che è al tempo stesso destino formale della deriva della materia e feticcio di una forma di seduzione del pensiero. È lo sguardo poetico dell’artista che può offrirci il volto più intimo e segreto della materia, superando così in un certo senso la presunzione della scienza che ne coglie il valore più letterale, legato strettamente all’aspetto fisico, chimico, biologico.
Come in una sorta di risarcimento, di rinnovato patto di alleanza nei confronti della natura e del reale, l’arte ne concepisce la dismisura e ci spinge verso la meraviglia, verso la capacità del nostro spirito di osservazione di andare oltre, di attraversare il limite. In tal modo ci aiuta a cogliere la materia nella sua veste animata, nella sua forma partecipata, nella consapevole responsabilità di produrre opere che, come sostiene Baudrillard, eccedano la visione e l’oggettivazione per assumere una capacità di rivelazione. In una civiltà digitale avanzata come quella del periodo che stiamo vivendo, mediatica, elettronica, virtuale, la cultura contemporanea tende a consumare, a ibridare la materia con una dimensione artificiale che dipende dalla potenza tecnologica dispiegata nella società, sulla società, e che cambia la nostra percezione della realtà.
Ma esistono immagini dirette della materia; la vista le nomina, ma è la mano a conoscerle. Una gioia dinamica le maneggia, le plasma, le fa lievi. Noi sogniamo queste immagini della materia, nella loro sostanzialità, intimamente, eliminando le forme periture, le immagini vane e il divenire delle superfici. Esse hanno un peso, sono un cuore. (Gaston Bachelard, Psicoanalisi delle acque, Red ed. 2015). Contro l’an-estesia dei flussi di immagini senza anima, l’artista, portatore di poiesis, instaura con la materia un accordo estetico, che in questo caso, più che mai, indica il valore della sensibilità. E costringe la nostra fantasia a costruire un corpo, una dinamica, una sostanza dietro la superficie, che contribuirà essa stessa alla secrezione di quell’elemento fantastico.
Questa “immaginazione materiale” libera quindi le immagini che si nascondono dietro le immagini, porta la nostra conoscenza altrove, spinge il nostro pensiero a trasfigurare il mondo in funzione della materia intima con cui si relaziona e a costituire una realtà a sé stante, parallela, che, in uno spazio altro e priva del tempo, ne fa emergere l’orizzonte problematico. Vi sono opere che “hanno visto” prima ancora di mostrare, che ci costringono quindi a ri-vedere il mondo nei suoi aspetti non formulati, nelle distanze e nelle differenze, nei luoghi dove non siamo mai stati, dove la natura ama nascondersi e parlare per enigmi. L’arte ha a che fare con l’evento, con l’eccezionale, con l’audacia e la malleabilità dell’immaginazione, con l’urgenza di una visione che non può essere contenuta nei margini di un quadro, di una superficie, di una forma. Il pensiero va a Piero Manzoni e all’opera Le socle du monde- Socle magique n. 3 de Piero Manzoni – 1961. Hommage à Galileo”, un parallelepipedo di ferro di 82 x 100 x 100 centimetri che l’artista colloca nel parco della fabbrica Angli, a Herning in Danimarca.
Quello di Manzoni è un gesto, è il rovesciamento del paradigma della scultura per cui un oggetto posto su un piedistallo assume la condizione di opera e letteralmente rivoluziona il punto di vista dell’osservatore, che si fa prospettiva planetaria. Non c’è più rappresentazione, l’oggetto diventa universale e di fatto informale, poiché non esiste forma in grado di riprodurlo se non il suo darsi in sé stesso, nella sua materialità pura, assoluta, immaginifica. La Base magica sommuove la percezione comune, libera le possibilità inespresse delle cose, la loro ombra, la loro reversibilità, ne converte il valore d’uso. L’operazione artistica riconduce alla terra, come in un processo alchemico e metamorfico, il ciclo della natura e della vita; rende la materia assolutamente immaginale, seduce l’osservatore e ne modifica la postura.
Come nelle dinamiche del gioco, richiede ed esige uno stato di abbandono attivo, atemporale; il mondo è esposto, pronto a essere pervaso in profondità nella sua essenza e condiviso nella sua dimensione simbolica. La potenza nel cogliere la sostanza della natura prima delle cose e degli eventi è evidente anche nel Cretto di Gibellina o Grande Cretto di Alberto Burri. Il sindaco di Gibellina negli anni ’80 commissionò a Burri, così come ad altri artisti, un’opera da collocare in città nuova, individuando nell’arte una via di riscatto e rinascita dopo il terribile terremoto del Belice del ’68 che rase al suolo il sito originario. Burri scelse invece di operare direttamente nello spazio, o meglio, sullo spazio del vecchio paese, realizzando un solenne monumento smisurato con un’estensione di circa 80.000 metri quadrati.
Le macerie vennero raggruppate, ingabbiate e rivestite di cemento, sino a creare una sorta di labirinto percorribile in un tracciato di ferite. Il lutto non viene messo in scena né mascherato, ma sublimato, trasformato nella distillazione impura della materia e dell’esperienza del trauma. L’opera non descrive il dramma, non fotografa i resti, cumulo di oggetti frantumati e strazio di carni; qualsiasi riproduzione sgranata apparirebbe e svanirebbe nel nulla, l’arte invece resiste. I suoi segni sono una realtà strappata e ricucita nell’anima.
L’arte organizza e incorpora il vuoto della perdita e la terribile memoria dell’istante sospeso, restituendo nella superficie crepata l’energia stessa dell’ondata sismica, il tremore della terra che le viene, per sempre, riconsegnato. È la materia stessa a ricondurre l’uomo al suo centro, l’ordine simbolico e poetico del gesto dell’artista ci affida a un non-dove senza più precise coordinate, ma consapevole della sua forza nell’afflato poetico, della sua potenza immaginale e evocativa. Il fuoco alchemico della trasmutazione artistica bonifica, decanta nel crogiuolo dell’invenzione le tracce dell’esperienza del mondo, le fa risuonare nei battiti dei suoi armonici naturali e le coagula in nuove possibilità di conoscenza e riflessione oltre ogni barriera mentale, sprigionando così il suo potere farmacologico.
Nel profondo della materia cresce una vegetazione oscura, nella notte della materia nascono fiori neri, con il loro velluto e la formula del loro profumo. (Gaston Bachelard, Psicoanalisi delle acque, Red ed. 2015)