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Umano e disumano


Un'analisi attenta delle modifiche in atto da tempo nel rapporto tra uomo e paesaggio


“La cosa più abbondante sulla Terra è il paesaggio. Anche se tutto il resto manca, di paesaggio ce n’é sempre stato d’avanzo”. Così José Saramago inizia il suo romanzo "Una terra chiamata Alentejo" (1980), vera e propria saga dei vinti ambientata nel Portogallo latifondista dall’inizio del XX secolo alla Rivoluzione del Garofani. L’affermazione dello scrittore lusitano è giusta: enorme, sconfinato, frastagliato, racchiuso, il paesaggio si presenta all’occhio dell’osservatore in decine e decine di modi, ognuno dei quali colpisce per un motivo diverso. Tuttavia, vi è una costante che unisce gli scorci paesaggistici di una nazione come l’Italia: in un paese come il nostro, infatti, in sostanza non esistono paesaggi che non siano marcatamente antropizzati e il processo di modellamento ambientale posto in essere dall’uomo affonda le sue origini in epoche remote.


Nel suo "Storia della natura d’Italia" (Editori Riuniti, 2001), Fulco Pratesi ricorda che sette o ottomila anni fa la penisola italiana era un’unica e fittissima boscaglia dalla quale emergevano solo le falesie rocciose e le vette al di sopra dei duemila metri di altitudine. Solo l’avvento di civiltà via via più avanzate provocò l’inizio dei disboscamenti, i quali raggiunsero il loro apice in epoca romana. Ma l’antropizzazione del paesaggio (e, più in generale, la sottomissione dell’ambiente all’uomo) ha raggiunto ritmi e modalità vertiginose nel XX secolo, come evidenzia John McNeill nel suo "Qualcosa di nuovo sotto il sole" (Einaudi, 2006), in conseguenza della grande accelerazione capitalistico-industriale. Quest’ultima ha comportato la realizzazione di fabbriche e capannoni, abitazioni, strade e opere varie di infrastrutturazione, dando il via a una trasformazione radicale degli scenari naturali terrestri. In ogni caso, mai il paesaggio è stato un elemento solo e semplicemente naturale: al contrario, esso ha sempre rappresentato e rappresenta la risultante dell’interazione tra la natura stessa e la storia, tra gli elementi originari e il modo di rapportarsi ad essi da parte dell’uomo al fine di soddisfare le sue necessità primarie: produrre cibo, abitare, difendersi.


In "Una terra chiamata Alentejo", Saramago afferma un’altra verità: “si sa che i paesaggi muoiono perché li ammazzano, non perché si suicidano”. In Italia non sempre la qualità dell’antropizzazione ha salvaguardato la bellezza del paesaggio: su la Repubblica del 13 agosto 2009, Paolo Rumiz descrive la febbre edilizia che da anni investe la Calabria e che ha dato luogo allo sdoppiamento dei vecchi centri collinari, i quali hanno visto sorgere i loro alter ego sulle coste ionica e tirrenica, in un trionfo di speculazione edilizia, abusivismo e investimenti di denaro da parte delle ‘ndrine locali (si tratta degli stessi paesaggi mostrati da Gianni Amelio nel film Il ladro di bambini"). Quella di Rumiz è solo l’ultima testimonianza in merito alle devastazioni edilizie in Italia. Il primo libro denuncia sotto questo profilo è stato "I vandali in casa" di Antonio Cederna, pubblicato nel 1956 da Laterza, e dopo di esso si sono susseguiti lavori volti a mettere in risalto la crescita sregolata del patrimonio abitativo italiano, tra i quali è doveroso ricordare quelli di Italo Insolera e di Alberto Caracciolo.


D’altronde, lo sviluppo economico italiano del dopoguerra si è basato su pochi cardini: produzioni a basso valore aggiunto, salari contenuti e un’attività edilizia sfrenata e priva di un’adeguata regolamentazione normativa (basti pensare all’affossamento del progetto di riforma urbanistica presentato da Fiorentino Sullo alla fine della III Legislatura). Nel suo "L’Italia maltrattata" (Laterza, 2003), Francesco Erbani ha sostenuto che i nove decimi degli immobili presenti nel nostro paese sono stati edificati nell’ultimo mezzo secolo, a fronte di un incremento di popolazione che, tra il 1951 ed il 2001, non ha superato il 20%. Non a caso, i dati sul consumo di suolo sono allarmanti: secondo Legambiente, in Lombardia ogni giorno vengono cementificati o asfaltati circa 103.000 m2di terreno, che diventano circa 200.000 se si prende in considerazione l’intera pianura Padana. Dal canto suo, Maria Cristina Treu, vice presidentessa della Fondazione del Politecnico di Milano, afferma che negli ultimi anni in tutta Italia le costruzioni avrebbero sottratto 2.800.000 ettari di terreno alle attività agricole.



Tutto questo risulta un elemento di perturbazione del paesaggio. Fermo restando che non tutto ciò che è stato edificato è inutile o di pessima qualità (al contrario, piani di edilizia popolare come fu l’Ina-casa voluta da Amintore Fanfani rappresentano pagine meritorie della storia del nostro paese), va riconosciuto come una parte significativa del patrimonio immobiliare realizzato nel dopoguerra si integri poco e male con la natura, sia perché realizzato in economia e con criteri speculativi (si pensi a molti dei quartieri periferici delle nostre città più grandi), sia perché in Italia l’abusivismo edilizio rappresenta un fenomeno di proporzioni colossali, favorito dal ricorso alla politica dei condoni edilizi (secondo dati forniti dall’Agenzia del Territorio e riferiti da Il Sole 24 Ore nel gennaio 2009, un milione e mezzo di particelle catastali italiane contengono fabbricati non denunciati, e il dato è incompleto poiché la mappatura riguarda solo il 75% del territorio nazionale).


Negli ultimi anni, poi, il paesaggio italiano sta conoscendo una nuova forma di alterazione, quella derivante dallo sprawl (o città diffusa), vale a dire lo sviluppo orizzontale delle aree metropolitane, anche di dimensioni non particolarmente rilevanti. Lo sprawl, di cui la diffusione delle cosiddette villettopoli è forse il massimo emblema, implica un elevato consumo di aree verdi e, visto che le abitazioni sorgono sempre più lontane dai luoghi di lavoro, anche un incremento del traffico automobilistico. Non solo: esso comporta la creazione di case del tutto isolate tra loro, prive di centri aggregativi (siano essi le piazze, le chiese, i circoli, i negozi) e quindi castranti sotto il profilo della relazionalità. Lo sprawl è al contempo causa ed effetto di quell’alienazione sociale perseguita attraverso il sezionamento delle attività umane e la zonizzazione delle città.



L’uomo chiuso ed estrapolato dal contesto sociale: questa è la tendenza che pare delinearsi osservando le più recenti modificazioni del paesaggio italiano. Per averne una conferma basta percorrere il tratto emiliano-lombardo dell’A1: chi si dirige verso nord, troverà il lato destro completamente chiuso dalla ferrovia, recentemente adeguata alle esigenze della cosiddetta Alta Velocità e trasformatasi in una barriera artificiale in cemento armato che impedisce la visuale del paesaggio agricolo della pianura Padana: i suoi cascinali, le sue coltivazioni, e quindi la sua storia, il suo tessuto economico sono preclusi alla visuale dell’automobilista, il quale per chilometri e chilometri si ritrova estraniato e collocato in un ennesimo non-luogo (uno dei tanti della nostra vita) monodimensionale in cui conta solo l’aspetto produttivo-monetario (recarsi il prima possibile al luogo di lavoro) e in cui ogni prospettiva di riflessione mediante l’osservazione è ritenuta non solo inutile, ma dannosa in quanto anti-economica perdita di tempo. Alcune dinamiche fondanti della società contemporanea come lo schiacciamento dell’esistenza umana sulla dimensione puramente economica, la cosiddetta fast life e la compartimentazione del nostro quotidiano si riflettono anche sul rapporto tra uomo e paesaggio. Forse, proprio un’analisi attenta di quest’ultimo potrebbe farci comprendere le distorsioni del nostro modello sociale e aiutarci a correggerle.




© Edizioni Archos

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