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Erbario di Famiglia, conversazione con Elisa Occhini

L'albero genealogico di una famiglia e di un’attrice, dalle radici verso l’emergenza, nel monologo teatrale di Elisa Occhini

Elisa Occhini in Erbario di Famiglia, photo © Valeria Buscemi

Quando un seme nasce, il suo germoglio emerge dalla terra.

Quando un’opera d’arte propone un linguaggio nuovo, emerge sulla scena.

Emergenza non ha solo il significato negativo più noto, dalle sue radici latine significa realmente “immergere fuori”. A mio parere potremmo immaginarlo come il movimento di “portare fuori ciò che sta profondamente dentro”, quindi in un certo senso il movimento che si compie per esprimere una verità. Un movimento che richiede due fasi: la prima è la consapevolezza della verità che sta dentro, profonda; la seconda è la volontà di esprimerla, che per molti artisti esiste sotto forma di urgenza. Il teatro emergente ha bisogno di spazio, di parole, di visibilità e si nutre di urgenze di individui che cercano radici e strade per diventare persone. L’emergenza di questo genere di teatro è quella di riflettere insieme, scambiare visioni e incontrare persone, sé stessi e gli altri, nell’esprimersi. “Erbario di Famiglia” di Elisa Occhini ne è un delicato esempio.

A giugno 2019 era un monologo dal titolo “Dove metterai le tue radici” e ha debuttato nella quinta edizione del Festival Teatri Peregrini, in Sardegna, festival gallurese nato con lo scopo di indagare la relazione tra natura ed umanità. A novembre 2019 è diventato “Erbario di Famiglia” ed è andato in scena a Casa Fools a Torino, ex Teatro della Caduta.

Photo © Valeria Buscemi

I passi mossi da Elisa Occhini, autrice e attrice di origini genovesi, nella creazione di questo spettacolo sono partiti da “La botanica del desiderio” di Micheal Pollan per arrivare a creare un vero e proprio omaggio alla vita, alla riconoscenza delle proprie radici, alla consapevolezza di essere soggetto creatore, di arte e di nuove vite, la creazione teatrale, la maternità. “Erbario di Famiglia” esprime una poetica molto chiara, non una superficiale messa in scena della propria famiglia, del proprio Sè, ma una scelta ragionata di lettura della realtà attraverso un’essenziale drammaturgia, che si riflette nella scenografia a cura di Cinzia Laganà e Claudio Fadda, e un sapiente utilizzo dell’arte attoriale.


Elisa Occhini è figlia degli anni ’80, ma non ha la sventurata ambizione o la sdentata brama dell’attrice under40: “Erbario di Famiglia” è uno spettacolo che racconta relazioni ancestrali, che rimane lontano dalla contestualizzazione nel tempo o nello spazio, che si permette di partire dal particolare, dall’esperienza della vita nella famiglia dell’interprete, per raggiungere le corde più alte, intangibili e sottili, della vita dell’essere umano. Parla di bellezza e di amore, quel minuscolo seme capace di generare alberi enormi, con radici profonde e chiome nel cielo, in grado di sbeffeggiare la morte.

Vi propongo una conversazione avuta con Elisa, che desidero lasciare il più possibile intatta, capace di per sé, senza filtri, di farvi intravedere quale la vera natura dell’autrice e dell’opera. Nel leggerla ho scoperto, inavvertitamente, la struttura di un albero, radici, tronco, rami, la medesima struttura metaforica che esiste nella crescita di un individuo, nella creazione di uno spettacolo e di un racconto. Ecco genesi e crescita di Elisa e del suo Erbario.

Photo © Valeria Buscemi

RADICI

Quali sono i maestri teatrali a cui ti ispiri?

Ho avuto diversi maestri, anche a loro insaputa. Alcuni direttamente, altri sono stati di ispirazione con i loro spettacoli o anche solo con una frase. Ci sono alcune frasi che mi hanno accompagnato in questi anni nella ricerca della mia posizione artistica. Mamadou Dioume (attore collaboratore di Peter Brook, n.d.r.) mi disse a un suo seminario (ero giovanissima, avevo 23 anni): «Per crescere come attori bisogna prima crescere come persone. La crescita artistica e quella personale vanno di pari passo». Questa frase è un po’ il faro nei momenti di difficoltà. Affidarmi alle persone e alla mia umanità, più che al tornaconto professionale, mi salva e mi ricorda perché faccio teatro: per incontrare persone, per amare la nostra umanità. Da Massimo Venturiello ho imparato che la timidezza, mia compagna da sempre, non è un limite, ma un’opportunità per mostrare un talento ancora maggiore; da Serena Sinigaglia sono stata spronata a cercare di fare il mio teatro. La lista dei maestri sarebbe lunghissima. Continuo a imparare anche dai colleghi coetanei, a cui sono molto grata.

Quale tipologia di teatro ti piace di più e quale teatro aspiri a diffondere?

Questa è una domanda difficile. Il teatro, quando è fatto con professionalità e verità, mi appassiona in ogni sua forma: dalla prosa, al cantato (ho visto anni fa “Knup”, eccezionale spettacolo musicale per bambini di una compagnia francese), dalla danza al teatro di strada. In questi anni, lavorando su Erbario di Famiglia e con un gruppo di non professionisti (conduco un laboratorio di teatro per persone over 60), mi sono convinta che il teatro che mi interessa diffondere è un teatro in cui la finzione scenica è al servizio di storie vere e viceversa: il particolare diventa universale. Ne sono un bell’esempio gli spettacoli “Nati in casa” e “Tanti saluti” di Giuliana Musso.


Ci sono certi tipi di spettacoli che sono fatti con la massima cura e il massimo rispetto per il mestiere e per il pubblico e sembra non si prendano sul serio, si prendono la libertà di essere loro stessi, lasciando da parte le convenzioni, la tradizione, il giudizio. E allora lì vedo qualcosa che mi interessa. Non amo l’intellettualismo, alcuni spettacoli possono essere apprezzati solo dagli addetti ai lavori, non mi piace. Penso a mio padre che si arrabbiava moltissimo quando vedeva certi spettacoli che non capiva. Quando scrivo uno spettacolo, penso a lui: mio padre lo capirebbe o si arrabbierebbe? Riuscirei a spiegare a mia nonna di cosa parla il mio spettacolo? Se la risposta è sì, allora sono sulla strada buona.

L’esperienza con Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa cosa ha aggiunto al tuo bagaglio?

I Marcido, con cui ho lavorato intensamente per tre mesi, mi hanno aperto un mondo nel campo della ricerca vocale, mi hanno spinto a cercare voci che non pensavo di avere, su cui magari avevo anche dei pregiudizi. Ma mi hanno anche messo in crisi. Li ho incontrati che ero giovanissima e mi sono interrogata su quanto spazio avrei permesso di prendersi al teatro nella mia vita. Il risultato è che sono partita per l’Erasmus, sono stata un anno e mezzo ad Anversa a studiare. Ho dovuto fare i conti con quella che realmente sono: una persona che ha bisogno di libertà e che non può assoggettare la propria vita ad un solo padrone.

Erbario di Famiglia, Festival Teatri Peregrini © Fausto Ligios

TRONCO

In Erbario di Famiglia è, a mio parere, ottima la caratterizzazione dei personaggi e incredibile lo svelamento finale. In che modo hai lavorato per creare i personaggi?

Non è stato semplice rendere così tanti personaggi da sola, per un po’ mi sono domandata se potevo davvero rendere la coralità delle voci in un monologo. Poi alcuni sono “venuti fuori” da soli, ad esempio la maestra è uscita con quella postura, con quella voce, senza premeditazione. Per la mamma sono partita da un suono, “rubato” e rielaborato da “A louer” dei Peeping Tom. Per gli altri personaggi mi ha aiutato l’occhio esterno di Chiara Lombardo (di Municipale Teatro, n.d.r.). Abbiamo cercato delle posture semplici ma chiare per identificare il nonno, la nonna, il padre. Il personaggio di Teresa sono io, ma non sono quella che incontri alla fine dello spettacolo. Sul palco dialogo veramente col pubblico, lo guardo, cerco di capire se mi segue. Mi metto un po’ al suo servizio perché il mio scopo è davvero quello di raccontargli una storia, di arrivare a lui senza fronzoli, con sincerità.

Scegli due frasi dello spettacolo che ti risuonano, quali sono e perché le scegli?

“Tu vieni dalla bellezza, coltiva quello che è bello e questo basterà”. Sei anni fa ho partecipato a Roma ad un laboratorio con Gabriele Vacis in cui ci invitava a riflettere sulla condizione del teatro in Italia e ci spronava a trovare delle possibili soluzioni per continuare a rendere il teatro necessario. Ci lesse una famosa frase di Calvino che da allora è diventato un po’ il mio mantra: L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Ci sono tante cose che non vanno, ma combatterle significa arruolarsi in una guerra i cui risultati sono incerti e che rischia di metterci dalla parte del torto. Ciò che possiamo fare è davvero coltivare la bellezza, ovunque si trovi a qualsiasi livello delle nostre vite. C’è bisogno di speranza, di sperare che il bello (nel suo senso più ampio) possa un giorno mangiarsi tutto il resto, fino ad annullare il desiderio di combattere ciò che non ci piace. “Non ci chiedi di prenderci cura di te; siamo noi che siamo costretti a farlo perché perderti sarebbe troppo doloroso”. Questo ribaltamento della prospettiva l’ho ritrovato in “La botanica del desiderio” di Michael Pollan, da cui ho tratto ispirazione per scrivere Erbario. Pollan si riferisce al mondo delle piante, io nel testo mi riferisco alla nonna, ma penso che questa frase si possa adattare a qualsiasi circostanza o situazione della vita. Se capiamo che prenderci cura di qualcuno o di qualcosa fa bene prima di tutto a noi, trasformiamo la fatica in un atto di amore. Questo vale per le persone, per il nostro pianeta, per gli anziani, per i meno fortunati, per il nostro lavoro...

Erbario di Famiglia, Festival Teatri Peregrini © Fausto Ligios

RAMI

Quali sono le prospettive di Erbario a livello di circuitazione? O stai già preparando in nuovo spettacolo?

Ho un’idea che mi frulla nella testa, ma voglio darmi il giusto tempo per realizzarla al meglio, facendo tesoro dell’esperienza (artistica, stilistica, organizzativa, economica) dell’Erbario che è un po’ il giro di boa per la mia crescita artistica, voglio ponderare bene ciò che dirò e come lo dirò con il prossimo spettacolo. A livello di circuitazione, dopo il debutto ho ricevuto alcune proposte interessanti, senza alcun dubbio però lo si vedrà nuovamente in giro, non solo a Torino.

Da quando sei diventata madre a quando hai progettato “Erbario di Famiglia”, quanto tempo è passato?

Ho due figlie di 2 e di 4 anni. Ho scritto il testo nell’inverno del 2014/15, quando ero incinta della prima. Avevo in testa di scrivere un monologo che partisse dal mondo delle piante ed ero incinta, dovevo quindi “giustificare” scenicamente quella enorme pancia che avevo. Come si suol dire, ho fatto di necessità virtù. Inoltre, non sapevo molto del mondo delle piante e allora ho iniziato prima a documentarmi e poi a domandarmi che legame avessi io con i fiori. È così che sono arrivati i ricordi, miei e altrui, rimaneggiati, immaginati, riadattati. Nel gennaio 2015 ne ho fatto la prima e unica lettura scenica, con mio marito che mi accompagnava con la musica dal vivo. Quando è nata la prima figlia ho messo tutto in stand-by anche perché ho iniziato a girare un po’ con il Duo Popoff (con mio marito, Alessandro Sola) e con Tentativo di concerto per innamorati e non”, spettacolo di cafè chantant. Ho recitato in progetti non miei e poi sono rimasta incinta della seconda figlia. Sentivo che finché non avessi portato in scena Erbario non mi sarei mai “sbloccata” artisticamente.

Recentemente ho fatto una riflessione su questo (lungo?) periodo di “pausa”. Mi sono accorta che ne parlavo quasi con vergogna, perché mi spiaceva passare l’idea che la maternità fosse un limite, un ostacolo alla crescita professionale di una donna. Mi sembrava di confermare un pregiudizio tanto in voga. È naturale che la nascita di un figlio cambi i ritmi della neo-mamma, sarebbe sbagliato e ingannevole far credere che non è così, che puoi fare esattamente tutto come prima. La grande contropartita però è che i figli sono quel limite che fa da spartiacque tra quello che è importante e quello che non lo è. Se non avessi avuto loro, forse mi sarei persa dietro a cose di minor valore o avrei dato io stessa meno valore a ciò che faccio. Loro mi insegnano il sacrificio, il valore del tempo e mi fanno concentrare sempre sulla mia umanità piuttosto che sulla mia vanità artistica. E qui si torna a quel discorso iniziale: “crescita artistica e crescita personale vanno di pari passo”.


© Edizioni Archos

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